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Comportamenti di sfida
30/07/2009

I COMPORTAMENTI DI SFIDA

Le difficoltà diagnostiche hanno notevoli ripercussioni anche a livello di gestione comportamentale, dove sussistono i principali problemi d’intervento sulle persone con DI.
In questa popolazione i comportamenti di sfida hanno una prevalenza variabile fra il 15 ed il 40% e limitano pesantemente il funzionamento socio-occupazionale e le possibilità di ri-abilitazione.

L’espressione ‘CdS’, usata per la prima volta da Emerson nel 1995, fa riferimento a comportamenti culturalmente abnormi di intensità, frequenza e durata tali da mettere in serio pericolo la sicurezza della persona o di altri, oppure comportamenti che limitano gravemente o impediscono l’accesso ai servizi ordinari della comunità.
Il termine ingloba una serie di comportamenti con valore negativo rispetto alla relazione fra l'individuo agente e l'ambiente circostante. I più frequenti sono l'aggressività auto ed eterodiretta, fisica o verbale, rivolta verso persone o oggetti, la fuga, l'atteggiamento oppositivo, provocatorio o impulsivo, le urla. Spesso si riscontrano anche forme multiple, in cui cioè più comportamenti abnormi coesistono.

I CdS hanno un'alta prevalenza anche nella clinica psichiatrica generale. Nessuno di essi è da considerarsi specifico di un determinato disturbo. Ogni CdS può infatti presentarsi nel contesto di un ampio spettro di disturbi psichiatrici ed organici. Questi comportamenti si sviluppano spesso nella fanciullezza e persistono nel tempo. I CdS variano anche per intensità e frequenza e vengono valutati infatti in qualità (p. e. gravità delle conseguenze) e in quantità (p. e. da numero di volte a settimana, a numero di volte all’ora).
Le teorie sulla natura e lo sviluppo dei CdS sono diverse e spesso contrastanti. Alcuni autori ritengono i Cds una modalità di espressione di sintomi psichiatrici, più frequente in persone con difficoltà di mentalizzazione e di verbalizzazione, come quelle con DI. Altri producono evidenze a sostegno della necessità di separare problemi di comportamento e quadri sindromici psicopatologici.
Il reperto di possibili substrati biopatologici e l'efficacia transnosografica di trattamenti farmacologici hanno recentemente sostenuto l'ipotesi di un'autonomia nosografica ed etiopatogenetica dei CdS. Alcuni fattori generali inerenti la disabilità, come il basso livello di intelligenza logico-deduttiva, I disturbi sensoriali e motori o gli effetti indesiderati delle polifarmacoterapie, sembrano contribuire più di altri alla spiegazione dell’alta frequenza di disturbi del comportamento. Fattori specifici dell’epilessia, 30 volte più rappresentata nella DI rispetto alla popolazione generale, sembrano invece associati alla copresenza di disturbi psichiatrici senza CdS.
Di contro molti altri autori sono ancora convinti della secondarietà rispetto ad un gruppo estremamente eterogeneo di fattori da quelli psicologici, al ritardo mentale per sé, alle dinamiche relazionali-ambientali. Studi recenti hanno indicato che le persone con DI sono più vulnerabili allo stress, usano strategie di coping meno efficaci e corrono un rischio molto alto di sviluppare relazioni di attaccamento insicure e disorganizzate. Esistono numerose evidenze di come, nella popolazione generale, la combinazione di questi fattori favorisca lo sviluppo di disturbi del comportamento. Circa la metà dei familiari che assistono persone con DI e CdS riferisce una condizione di forte distress ed un terzo presenta sintomi d’ansia clinicamente significativi. L’inquadramento ontopatogenetico dei CdS operato dallo staff di cura e l’atteggiamento emotivo e relazionale degli operatori nei confronti della persona con DI e CdS condiziona in modo determinante l’intervento. Negli operatori il miglior predittore della disponibilità ad aiutare sembra essere la simpatia verso la persona disabile, legata a sua volta alle convinzioni che la persona non sia responsabile dello sviluppo dei suoi CdS e che l’ambiente e gli operatori siano determinanti per la risoluzione degli stessi. Nei membri dello staff di intervento la percezione di auto-efficacia e di capacità di gestione comportamentale sembrano rappresentare fattori capaci di prevenire lo sviluppo di emozioni negative in risposta ai CdS. Il possedere una qualifica formale sembra invece associarsi ad un numero maggiore di emozioni negative.
La letteratura identifica tre classi principali di intervento sui CdS: le tecniche di miglioramento comportamentale, quelle di riduzione comportamentale ed il trattamento farmacologico. La pratica clinica sembra suggerire che l’intervento più efficace sia quello improntato su una considerazione contemporanea degli aspetti organici, psichiatrici, socio-ecologici e funzionali, nonché sulla valutazione del contributo patogenetico di ciascuno di essi (approccio analitico multimodale contestualizzato). Anche i più recenti contributi scientifici basati sull’evidenza sembrano sostenere l’efficacia di procedure terapeutiche scelte in base alle informazioni cliniche e ambientali specifiche di ciascun paziente e concepite in modo da insegnare abilità di coping e alternative ai CdS. Alcune delle tecniche usate sono: sostituzione degli stimoli precedenti, strutturazione di alternative comportamentali funzionalmente equivalenti, comportamenti competitivi, estinzione, controllo dei rinforzi non-contingenti, offerta di rinforzi differenziati, tecniche di rilassamento e di gestione dell’ansia, terapia di gruppo, programmi di socializzazione.
L’aggressività sembra risolvibile con più difficoltà dei comportamenti antisociali e di quelli di disadattamento. I comportamenti aggressivi sembrano rispondere meglio agli approcci di prevenzione che agiscono sui trigger ambientali.
Per quanto concerne la terapia farmacologica non è stato ancora individuato un trattamento specifico efficace. Vengono utilizzati con discussa efficacia gli stabilizzanti dell’umore, i neurolettici e le benzodiazepine. L’ipotesi di un’alterazione dei sistemi serotoninergici alla base dei comportamenti impulsivi e aggressivi ha sostenuto a lungo l’utilizzo degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, soprattutto di quelli a più alta componente ‘sedativa’; la loro efficacia non è stata tuttavia definitivamente dimostrata. Le terapie più recenti sono invece fondate sull’utilizzo degli antipsicotici di nuova generazione.
In ogni caso le conoscenze attuali sulla genesi e sulla natura dei CdS o disturbi del comportamento nella persona adulta con DI consigliano di seguire i seguenti punti:
- escludere la presenza di malattie organiche concomitanti, che devono essere trattate specificamente;
- eseguire un’analisi funzionale del comportamento (questa deve comprendere almeno le seguenti fasi: descrizione dei comportamenti problema, identificazione degli eventi che ne precedono la comparsa o la mancata comparsa, identificazione degli eventi che ne determinano il mantenimento, sviluppo di ipotesi che leghino i singoli comportamenti a trigger e conseguenze specifici, raccolta di dati d’osservazione per confermare o scartare le ipotesi formulate, i dati possono essere raccolti attraverso interviste, osservazioni, moduli di valutazione creati appositamente, relazioni interpersonali e ambientali);
- eseguire una valutazione multimodale contestualizzata ed un intervento integrato multidisciplinare (coinvolgendo tutte le professionalità, la famiglia e gli ambienti di vita)- l’intervento farmacologico non deve essere considerato come l’intervento di prima linea, ad eccezione dei casi in cui il disturbo sia così grave e pervasivo da richiedere una misura interventistica di efficacia immediata e in cui lasciar trascorrere tempo potrebbe essere pericoloso.
- i fattori psicopatologici di potenziale valore etiopatogenetico del disturbo del comportamento meritano una valutazione attenta. I farmaci possono avere efficacia diversa anche in base a questi;
- nei casi in cui non sia ravvisabile un disturbo psichiatrico in relazione causale, alcune molecole hanno mostrato una certa efficacia trasversale sui comportamenti di sfida;
- le dosi efficaci sono spesso inferiori a quelle dei sintomi target delle molecole per la popolazione generale, Inoltre le persone con DI sono spesso sensibili a dosi modeste, è necessario dunque iniziare il trattamento con dosaggi bassi, per incrementarli successivamente all’occorrenza;
- l’attuazione e la prosecuzione della terapia deve essere valutata sul rapporto tra efficacia ed effetti indesiderati, possibili e in atto;
- il farmaco più efficace per un paziente è quello che ha già dato risultati positivi in passato e che è stato ben tollerato; l’anamnesi farmacologica è dunque una tappa inevitabile nella scelta dell’intervento farmacologico; tuttavia alcuni dati storici devono essere accolti con riserva, infatti effetti indesiderati riportati nella storia clinica non sempre sono stati riscontrati nei tentativi di riutilizzazione dello stesso farmaco;
- ogni trattamento deve essere iniziato solo dopo una valutazione dell’assenza di condizioni controindicanti;
- la comparsa di effetti indesiderati deve essere controllata a intervalli regolari;
- una valutazione standardizzata dei sintomi target deve esser registrata prima dell’inizio del trattamento e successivamente una volta al mese per i primi 75 giorni, dal 76° giorno ogni 15 giorni; gli effetti indesiderati devono invece essere valutati settimanalmente per il primo mese, quindicinalmente per i due mesi successivi e dopo mensilmente;
- la terapia farmacologica deve sempre essere spiegata e discussa con l’equipe che interviene sui comportamenti di sfida, anche al fine di valutarne l’efficacia;
- la terapia deve essere interrotta se: non presenta effetti benefici sui disturbi del comportamento dopo 3 mesi, gli effetti indesiderati sono di eccessivo fastidio o limitano funzionalmente senza che sia possibile controllarli con l’aggiunta di un’altra sostanza o riducendo il dosaggio.

BIBLIOGRAFIA 
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Unwin GL, Deb S. Use of medication for the management of behavior problems among adults with intellectual disabilities: A clinicians’ consensus survey. Am J Ment Retard 2008; 113:19–31.

 

Marco Bertelli