Gran parte delle difficoltà della ricerca sulla disabilità intellettiva nascono dalla mancanza di una definizione precisa del costrutto di intelligenza. Le numerose evoluzioni e rivoluzioni teoriche che si sono succedute nel tempo sembrano ancora lontane dal risolversi.
Agli inizi del secolo scorso e per un cinquantennio, l'intelligenza viene considerata come un'unica funzione generale valutabile attraverso verifiche di abilità di risoluzione di problemi logico-matematici. Nel 1912 lo psicologo tedesco William Stern conia il termine I.Q. (dal tedesco Intelligenz-Quotient) e lo definisce come la risultante della formula (età mentale/età biologica)*100, in modo che due bambini di età diversa che risultassero entrambi con un'intelligenza pari alla media, otterrebbero entrambi lo stesso punteggio di 100. Si succedono ulteriori teorie che continuano a considerare l’intelligenza come un fattore generale e tendenzialmente predeterminato. In alcuni casi questa abilità generale (fattore g) viene implementata da altre abilità specifiche (fattori s), acquisibili attraverso l’esperienza e l’apprendimento. Il fattore 'g' di Spearman risulta correlato alla distribuzione della sostanza grigia nella corteccia frontale degli emisferi cerebrali, geneticamente determinata.
Sul finire degli anni ’40 il costrutto va incontro ad un’evoluzione, iniziando ad essere considerato come un insieme di abilità distinte e modificabili con l’esercizio. Si sviluppa una teoria multifattoriale e, negli anni successivi, viene proposta anche una struttura verticale dell’intelligenza, in base alla combinazione di varie dimensioni.
Su questa nuova impalcatura concettuale si inserisce il modello di Gardner, che sostituisce la vecchia concezione dell’intelligenza misurabile tramite il QI, con una definizione dinamica strutturata in sottofattori differenziati. Gardner definisce l'intelligenza come la ‘capacità psicobiologica di processare l'informazione, che, in un determinato contesto culturale, può venir attivata alla soluzione di problemi o alla realizzazione di prodotti aventi valore aggiunto di tipo culturale. L’autore identifica sette tipologie diverse di intelligenza, ognuna attribuibile alle diverse aree della vita dell’uomo: logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale ed intrapersonale.
Alla metà degli anni '90 Goleman introduce il concetto di Intelligenza Emotiva, riferita come la capacità di gestire i propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere degli obiettivi. Egli sostiene che sia un’abilità intellettiva malleabile, in grado di modificarsi attraverso l’esperienza e l’apprendimento e con la quale si può spiegare l'adattamento e la soddisfazione che le persone con un basso QI possono manifestare nei vari ambiti di vita.
Molte teorie si sono dunque susseguite ed ancora si susseguono nel tentativo di comprendere il complesso fenomeno dell'intelligenza. Anche le tecniche di misurazione sono state e sono altrettanto varie ed il loro sviluppo ha seguito spesso un percorso indipendente o addirittura inverso rispetto al processo di teorizzazione. Di fatto chi esplora la natura e la funzione dell'intelligenza risulta ancora cieco al suo oggetto di studio e per rappresentarlo deve continuare a servirsi di metafore.
L'intelligenza non è unica. Il sistema cognitivo umano agisce mediante la sinergia di competenze o abilità che si possono relativamente distinguere e che contribuiscono in diversa misura a rendere l’individuo capace di fronteggiare e gestire le situazioni ed i compiti più disparati.
Le manifestazioni e le funzioni dell'intelligenza sono molteplici. È un aspetto specifico dell’intelligenza la capacità di estrarre informazioni funzionali alla risoluzione dei problemi o alla creazione di prodotti che vengono valorizzati all’interno del contesto in cui il soggetto intelligente opera. Non bisogna infine dimenticare che un individuo, in base al criterio dell’utilità sociale, è intelligente solo se le manifestazioni del suo modo di essere sono riconosciute e valorizzate dalla cultura d’appartenenza.
L'intelligenza non si misura con nessuno dei test finora prodotti. Il QI in sembra incidere solo per il 20% sulle prestazioni lavorative ed in percentuale ancora minore su quelle non professionali. Ciò significa che il suo valore non rispecchia una misura della potenzialità cerebrale, della capacità globale di far fronte ad una varietà di problemi, ma semplicemente riflette l’abilità specifica nel risolvere problemi scolastici.
Le persone che hanno un QI basso potrebbero non essere così poco intelligenti. Esistono tante implicazioni disfunzionali quante sono le funzioni mentali, conosciute e non conosciute, definite e non definite, coinvolte nei test valutativi.
RIFERIMENTI
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